Harveys Imperial Extra Double Stout 2003

The style "Imperial Russian Stout" and the name "Albert Le Coq" are synonimous. In the early 1800's the belgian A. Le Coq exported Imperial Stout from England to Russia and the Baltic area.
After the import traffic increases drammatically in the early 1900's A. Le Coq was invited by Tsarist government to brew the legendary Imperial Extra Double Stout within the Russian Empire. In the 1912 the first Imperial Extra Double Stout left the brewery in Tartu, the former province of Livonia, now Estonia. World War I and the Russian Revolution, however, brought a drammatic end to A. Le Coq's venture. Production ceased until 1921 and his brewery was nationalised by the Bolshevik government. The facsimile label on each bottle of Imperial Extra Double Stout pays homage to A. Le Coq without whom this classic style would never have reached its legendary place in the world of beers.



Mai etichetta fu così chiara: ci sono tutti i presupposti per approfondimenti storici e culturali da far perdere il sonno. Basti solo pensare all'accostamento dei termini imperial, extra e double, mix lessicale fatto di vocaboli che singolarmente identificavano altrettante interpretazioni di stout cadute in disuso nel tempo e che oggi è facilmente e facilonamente praticato dalla qualsiasi beer firm piuttosto che dell'imprenditore della birra dell'ultim'ora che voglia dare un tono sensazionalistico all'ultima trovata. Termini che messi insieme un secolo fa danno, invece, idea dell'occasione ed il giusto risalto alla straordinarietà del prodotto in questione al netto delle ruffianate.
A questi talvolta si aggiunge il russian, il cui uso fu acconsentito e spinto dallo stesso zar del tempo alle birre inizialmente solo importate in Russia prima che prodotte.

Quello che si può aggiungere storicamente è che, come accennato, il birrificio estone sul quale impianto lavorava Le Coq ora non produce più questa birra nè nulla di simile, nonostante porti ancora il nome del suo birraio più celebre come nome del birrificio. Se volete farvi del male, basta sfogliare tra le birre prodotte attualmente e gli orrori più inguardabili verranno fuori nella veste di lattine, di versione "premium" di Warsteiner, strong lager e radler, oltre alla produzione di bevande analcoliche, succhi e altro. I tempi d'oro degli zar sono ben più che tramontati. Ma questo doveva essere un bel post di esaltazione, non guastiamolo così.
Per fortuna gli inglesi di Harveys hanno avuto ben altra storia, resistendo fin dal 1790 ai giorni nostri, portando avanti per lo più birre dall'aura storica anche se qualche concessione più attuale esiste, con produzioni di golden ale o uso di Cascade UK in qualche birra. Parliamo di eccezioni, dominano ben altri stili tra la loro gamma.


Questa leggendaria birra è un pezzo di storia birraria che riesce ancora ad arrivare ai giorni nostri e non si rifiuta di stupire già dall'aspetto in bottiglia: vetro spesso d'altri tempi, tappo in sughero sotto una fulgida capsula argentata, etichetta minimale in apparenza ma ricca di informazioni e richiami antichi.
Mi trovo all'Ottavonano di Atripalda ed ordinandola sono consapevole di fare un tuffo in un modo di interpretare le stout ben diverso da quello che ha preso piede oggi. Nonostante questa bottiglia provenga da una produzione del 2003, infatti, mi ritroverò di fronte a sapori tostati quasi nuovi per me.
Gianluca Polini me la stappa versandola delicatamente in un decanter, a causa della presenza di sedimenti da far precipitare sul fondo senza portarli nel bicchiere, oltre che per farla tornare dopo anni a temperatura ambiente per ricevere respiro ed essere bevuta.

Schiuma totalmente assente ad eccezione di un anello di bolle grosse in prossimità del vetro, a tutto vantaggio di una leggera ossidazione in bicchiere che in birre così complesse ed alcoliche porta addirittura qualche vantaggio, sfoderando i più sorprendenti caratteri vinosi avvertibili fin da subito avvicinando il naso al bicchiere. Favoloso lo strato cioccolatoso che sale tra le narici, profondo e durevole. Tratti simili ad alcuni amari alle erbe ed alla radice di liquirizia completano il bouquet, facendo subito impugnare il bicchiere. Trama ebano impenetrabile, densità viscosa che veste il bicchiere senza più svanire.
Al gusto la carbonazione è praticamente assente e l'ingresso in bocca è anche meno oleoso del previsto. Un'esplosione di cacao amaro e cioccolato fondente investe il palato, mentre affiorano sensazioni di liquore nocino, carruba, prugna secca. Il carattere tostato su cui punto l'attenzione è unico: variabile, profondo e costruito su più strati cominciando dai caratteri più docili di cacao fino a sfociare nel liquore al cioccolato, per poi accennare una lievissima acidità finale.
Impossibile non notare poi le sfaccettature vinose oltre che quelle liquorose, il calore alcolico spinto che si sprigiona nel petto, un richiamo a salsa di soia e sapori marsalati dovuti a invecchiamento, tempi di conservazione (sono pur sempre 11 anni) e procedure produttive.
Mi sorprende ancor più il finale, molto poco amaro, di classe. La bocca resta asciutta e sazia ed il tocco tenuemente tostato con cui scorre via ha del clamoroso.
L'impatto acido non è affatto fastidioso, sconvolgente o opprimente, piuttosto si palesa insieme ai tostati legandosi per donare sensazioni salmastre, officinali e medicamentose da farci un aerosol.
In tutto ciò ho omesso l'abbinamento che Gianluca mi ha sottoposto con del cioccolato di Modica, esaltante e godereccio oltre che riuscitissimo.

Quando una birra stupisce ed appaga in questa maniera è quasi impossibile trattenere la soddisfazione ed il trasporto emotivo, e non solo per me.
Ero già preparato al distacco ed al confronto con la maggior parte delle imperial stout di stampo moderno, ma un conto è immaginare ed un altro è gustare.

Cheers!

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