Prize Old Ale vs Thomas Hardy's

Quello di cui mi occupo oggi non è il racconto della birretta session bevuta l'altro giorno o della novità birraria del mese. Bensì è un raffronto tra due monumentali birre, messe una di fronte all'altra, che per storia e blasone vanno bevute almeno una volta nella vita.

Quando si parla di old ale si va automaticamente a scomodare questo binomio che risponde ai nomi di Thomas Hardy's e Prize Old Ale. Hanno entrambe storie travagliate ma le accomuna il fatto di rappresentare un mondo produttivo ormai accantonato. Eccezion fatta per il mondo dei lambic, non esiste quasi più quel processo del passato attraverso cui grandi quantità di birra molto alcolica venivano prodotte in inverno evitando contaminazioni dovute alle temperature miti, accantonate e stockate (stock ale) per poi prenderne una parte e blendarla durante i mesi estivi con birra giovane, dandole contemporaneamente freschezza e profondità, ottenendo soprattutto mild ale e porter. Quantitativo di cui, la parte rimasta non blendata e nel frattempo invecchiata, ossidata e trasformata dai batteri lattici presenti tra le doghe dei grossi barili in legno, sarebbe poi stata mandata in commercio con l'appellativo di old ale.
Spesso quando si parla di old ale si interpellano queste due birre ed una particolare fascia produttiva a sè, corrispondente alla seconda delle tre categorie descritte rispettivamente da Michael Jackson con i nomi di strong mild ale, dark strong bitter e strong ale, e successivamente da Martyn Cornell come Burton-style strong ale, dark strong ale e pale strong ale. Non è affatto facile orientarsi, ma proviamoci.
Le peculiarità della famiglia delle old ale, per come si presentava in passato, erano proprio la presenza di un carattere lattico (per nulla inusuale fino al secolo scorso, prima dell'avvento di tini d'acciaio e processi più controllati) dovuto sia a batteri lattici che a lieviti selvaggi presenti nel legno ospitante, a contorno di un carattere ricco di melassa e di un'impronta dolce di caramello mou che difficilmente andassero oltre il muro della stucchevolezza. A tutto ciò si va ad aggiungere quello che conferisce la lunga maturazione in legno nell'arco di un anno prima di finire in bottiglia: ossidazioni più o meno spinte, che poi proseguono ulteriormente in bottiglia negli anni di invecchiamento a venire.
Le maglie delle caratteristiche più meramente tecniche sono alquanto larghe, ma si riferiscono ad un grado alcolico elevato seppur non a doppia cifra. Il terreno di confronto è sempre quello dove competono anche i barley wine, tendenzialmente poco più alcolici e poco più luppolati, paragone a cui si ricorre nonostante entrambe le allusioni stilistiche risultano essere più spesso delle etichette moderne con cui cerchiamo di inscatolare archetipi di birre del passato, alludendo a sfumature produttive labili che variavano da un birrificio all'altro e da un decennio all'altro. Tutto ciò, però, nel presente e nelle nuove pagine di birra che si scrivono oggi assume comunque un utile connotato di demarcazione, di linea guida.



La Gale's Prize Old Ale (2003) che ho stappato, dunque, ha un glorioso passato, che risponde al nome della Gale Brewery, birrificio situato ad Horndean, piccolo villaggio poco distante dal centro nevralgico per il traffico navale che era Portsmouth. I Gale nell'800 erano una famiglia di panettieri quando Richard Gale acquisì nel 1847 il Ship & Bell Inn, taverna di un birrificio rinomato per le sue birre di qualità. Il figlio George pochi anni dopo comprese le potenzialità commerciali e le proiettò in ottica espansiva, e così dopo un primo birrificio andato distrutto per incendio ne eresse un altro con quello che aveva potuto salvare del precedente, costruzione raffigurata poi proprio in etichetta.
Gli affari andavano bene, così che dal 1896 in poi, con l'ingresso del socio di maggioranza Herbert Frederick Bowyer, si susseguono acquisizioni di altri birrifici ed espansioni commerciali nelle contee limitrofe. La chiave del successo era in un gruppo di lavoro qualificato, nelle innovazioni nei trasporti, nella diffusione delle loro bottiglie e soprattutto nella qualità delle loro birre. Tra premi internazionali e depressioni belliche gli alti e bassi si alternavano, ma dopo il secondo conflitto mondiale le vendite crollarono inesorabilmente. La nostra Prize Old Ale pare sia nata a cavallo tra una guerra e l'altra, quando nel 1920 il nuovo birraio che si insediò portò con sè dallo Yorkshire la ricetta di una celebre XXXXX Stingo, antica birra della famiglia delle strong ale, caratterizzata da 82% di malto e 18% di glucosio, bollitura di 3 ore e tenore di 9,5%alc.


Dopo anni, un'importante risalita commerciale avviene nel 1959 con nuovi investimenti ed il grande successo dopo il lancio della Horndean Special Bitter. La famiglia dei proprietari subì nel 1982 la grave perdita del presidente di allora, Hugh Bowyer, ma nonostante ciò il nome del birrificio e la sua fama continuarono a navigare in floride acque. Dal 2001 in poi si entra in un'era di nuovi premi e riconoscimenti e questa solidità qualitativa ed industriale fece gola al gruppo Fuller, Smith & Thurner (oggi è noto semplicemente come Fuller's) che nel 2005 la acquisisce e ad aggiunge alla propria eredità storica quella di questo colosso dell'industria birraria inglese.
Ancora lo storico appassionato Martyn Cornell, in verità, già pochi anni dopo questa acquisizione mostrò apprezzamenti per questa operazione, dato che a suo dire le produzioni degli ultimi anni della Prize Old Ale erano alquanto discontinue e mancanti di alcune caratteristiche come la giusta gasatura, sperando che quelli di Fuller's potessero quanto meno non far decadere tristemente questa birra. In realtà questo è stato evitato, così come raccontato da Fuller's e come mostra la recensione di Stefano Ricci su questa versione più recente, non tutto è perduto.


La ricetta prevede l'impiego di malto Maris Otter con una manciata di malti scuri ed un 10% di destrosio, mentre per la luppolatura i nomi sono quelli rispettabilissimi di Worchester Fuggle, Challenger e East Kent Goldings a dare 53 IBU secondo Roger Protz: maturazione per 12 mesi in cask di legno e tenore alcolico finale di 9,0%alc. Per qualcuno il contributo della maturazione in bottiglia pare possa portarla addirittura a 12,0%alc. e darebbe il suo meglio dopo 20 anni.
A me entrambe le affermazioni sembrano alquanto esagerate.

La birra che stappo è proprio una delle ultime annate produttive, quella del 2003. Mi trema il cavatappi in mano quando devo affondarlo nel sughero, la cui morbidezza mi fa quasi temere che si rompa. I primi odori sembrano rassicuranti, verso nel bicchiere ed inizia la poesia.
Schiuma neanche a pagarla, ovviamente: viscosità elevatissima, le prime gocce si aggrappano strenuamente al labbro della bottiglia.
Il colore è mogano con qualche riflesso ramato in una leggera torbidità, mentre le bollicine non esistono affatto.
Le prime sensazioni olfattive sono da favola: caramello mou, fico secco, dattero, tanta uvetta, mela cotta al forno, castagna del prete con uno sfondo legnoso e di amaro alle erbe. L'intensità e la persistenza ci sono, promette davvero bene, le ossidazioni sembrano presenti e donano una spinta nobile.

I primi sorsi fanno lentamente tornare con i piedi per terra però. Quel lattico, marchio di fabbrica, c'è tutto ed è la prima sensazione che si avverte con chiarezza, sovrasta addirittura la tanto attesa dolcezza dei malti. Si presenta diversamente da quello che l'aroma fa intendere, abbandonando le suggestioni di uvetta a scapito di questa acidità molto elegante e seria, la quale ha sicuramente eroso anno dopo anno il corpo ed il residuo zuccherino di base. Ne ha tirato fuori una birra alquanto svelta, veloce e tutt'altro che contemplativa, mettendo a nudo anche un finale con un amaro basso e lungo dall'azione ripulente. Notevole il mix di acidità lattica, malica, quasi sidrosa, con la secchezza risultante ed il leggero amaro, che giungono dopo l'espansione in tutta la bocca di un grande calore e l'insorgere di un piacevolissimo pizzicore sulla lingua.
Il tempo l'ha plasmata, sono ben 12 gli anni passati ma le condizioni sono buonissime. Stiamo pur sempre parlando di una birra con solo tappo in sughero e sottile capsula protettiva, per cui lo scenario sarebbe potuto essere ben diverso. Sarebbe stato utile anche avere un'ulteriore annata e/o una birra uscita recentemente da Fuller's, ma non si può avere tutto dalla vita e si può sempre sperare nel futuro.

Desiderai la stessa cosa quando bevvi il millesimo del 2008 lo scorso anno, ed in effetti l'occasione qui si è ripresentata con questa bottiglia di O'Hanlon's Thomas Hardy's (2006). Vale tutto quello che già si è detto su questo dogma di birra, con questa annata siamo sempre in quella seconda sfornata produttiva che vede protagonista il birrificio O'Hanlon's raccogliere l'eredità della birra leggendaria brassata in precedenza da Elridge Pope, di cui ci sono ancora in giro degli esemplari, con prezzo esorbitante e rischio crescente di birra appassita: non so se valgono la spesa.
Siamo al confine delle old ale: non c'è più il discorso delle stock ale ma una produzione mirata ad ottenere solo questa birra senza attingerne per blend. Birre pensate per invecchiare, realizzate con ore e ore di bollitura per concentrarne il mosto e quindi decisamente più alcoliche di altre old ale. C'è diatriba su questa birra e sull'accostamento ad old ale piuttosto che a barley wine, ma solitamente si tira in mezzo un profeta come Michael Jackson che con classe liquida la questione definendola semplicemente una old ale atipica nel tenore alcolico, più elevato essendo di 11,7%alc.
Questa birra imbottigliata ben 9 anni fa è anch'essa molto viscosa già dalle prime gocce versate.
Appare di un colore mogano con più evidenti riflessi ramati ed una limpidezza molto più apprezzabile. Le narici affondano in una densa nuvola di aromi intensissimi sospesa a mezz'aria: si avverte innanzitutto un tono di vino liquoroso, marsalato a causa delle importanti ossidazioni del tempo. Si affacciano ancora la castagna ed il miele di castagno spinte dalla potenza dell'etilico, mentre di uvetta e caramello vi è poca traccia.


Lasciandole invadere la bocca si resta molto soddisfatti per le aspettative mantenute, con una importante presenza di caramello bruciato, melassa ed una profondità oleosa, a tratti grassa e nocciolata che richiama della frutta secca come noci brasiliane e mandorle caramellate, fino ad arrivare a richiami di liquore amaretto nel finale. La ciliegia sotto spirito qui non è in bella vista rispetto all'annata su citata, mio termine di paragone. Gradevolissimo è il grande calore sprigionato ed un pizzicore parecchio intenso sulla lingua che sollazza piacevolmente.
È una birra che ha preso la strada verso ossidazioni decise, dal finale rocambolesco ed orgasmico come poche altre birre al mondo sanno fornire.

Le due birre hanno diverse differenze tra loro ed un qualsiasi confronto diretto tre esse non può ignorare le varie differenze produttive e stilistiche fin qui evidenziate, frutto delle diverse annate produttive. Motivo per cui questo è semplicemente una delle tante sfide possibili tra i due titani.
Nonostante ciò, non è detto che ne possano o ne debbano uscire entrambe vittoriose.
Lo scarso corpo della Prize Old Ale si ripercuote purtroppo sulla potenza generale, attutita ed ingentilita con classe dai toni aciduli. Anche sul fronte della coerenza tra olfatto e gusto mi aspettavo più rigore: se solo quel tono di uvetta si ritrovasse anche nel gusto e se quest'ultimo fosse più strutturato, ora starei parlando di un capolavoro assoluto: così lo è ma solo in parte.
Al contrario, sono queste le garanzie che la Thomas Hardy's ha dato, corredate dall'ossidazione netta ed importante.
È quest'ultima la birra dei sogni e che nei sogni stessi tende a far rimanere chi la beve.

Birre di questa caratura, di tanto in tanto, quando capita l'occasione, non bisogna farsele scappare.

Ci vogliono mesi ed anni per rincorrerle, poche ore per godersele e tutto il tempo a venire per sperare di incontrarle ancora.

Cheers!

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