Conoscere uno stile: NE IPA

Dico la verità: non avevo alcuna intenzione di buttarmi a capofitto in questa storia delle IPA "juicy" prodotte nel Vermont e nel New England, costa est USA.
Il motivo era puramente di principio, dato che il bombardamento (involontario) sui social di racconti e foto di questo stile-non-stile di birre dall'opalescenza smodata, quasi "trash", ai limiti del comprensibile, mi aveva destato disinteresse e rifiuto.
Seguendo, però, qualsiasi discorso birrario che si faccia - perchè nel bene o nel male molte volte c'è comunque da imparare - ho messo insieme qualche elemento.
La scintilla è scoccata quando si è reso disponibile su Birramia il famigerato lievito Vermont Ale, distribuito dalla The Yeast Bay. E dato che alla produzione di IPA solitamente dedico poca attenzione e spazio nell'homebrewing, ho pensato di farlo sperimentando in grande stile.


Le informazioni su questa nuova tendenza di American IPA, l'ennesima, erano e sono un po' vaghe. Ma cercando e soprattutto scremando osservazioni e dati credo di essere riuscito a mettere dei punti fermi, che ho poi voluto verificare mettendoli in pratica.
La sfida è ottenere birre dalla esplosiva componente aromatica di frutta tropicale su una birra sì secca ma non eccessivamente, che sia contemporaneamente cremosa e morbida e non particolarmente amara.
Il punto di partenza è stato comprendere che ciò che ci si aspetterebbe come obiettivo, cioè la incredibile torbidità, non deve essere il fine ma la naturale conseguenza di certe scelte produttive volte ad enfatizzare certe caratteristiche sensoriali, non quelle legate alla vista in primis.
Infatti, da che mondo (craft) è mondo (craft), non è che venga accettata molto come possibilità quella di avere una birra torbidissima che faccia pensare ad operazioni approssimative compiute durante la produzione.
E nello specifico, non ho provato ad essere impreciso, ma proprio a prendere delle scelte chiare.


MALTI
Morbidezza, dicevamo, ed allora bisogna spaziare anche nel campo di altri cereali ed altre forme. Nello specifico è l'avena quella che fa al caso nostro, come trapela da diverse fonti. La forma dei fiocchi, poi, è quella che più dona proteine. E queste danno sia sostegno al corpo che sostanza alla schiuma.
La precentuale che ho impiegato è abbondante, circa il 20%.
Ma ho visto che anche il noto blogger ed homebrewer di Brülosophy ha impegato ugualmente poco meno del 20%, notando piccole differenze.
Il resto dei malti deve essere tale da non dare solo pulizia e secchezza, ma qualcosa in più. Si va quindi sul Maris Otter (35%), che però nello specifico ho tagliato con del Pils (35%) soprattutto per necessità (non avevo Maris Otter a sufficienza!).
Per arricchire la gamma di sensazioni maltate ho aggiunto del malto Monaco (10%), in mancanza di malti dai toni caramellati gentili e per compensare la precedente scelta del Pils in termini di pulizia. In alternativa si dovrebbe impiegare qualche piccola percetuale di malto caramellato chiaro, appunto.
Per il mashing ho effettuato un breve protein rest dovuto alla presenza di Maris Otter ma anche dei fiocchi di avena, ma è stato breve e fatto per non dissolvere troppo quelle proteine che volevo invece che interagissero, come la birra di riferimento suggerisce, con lievito e luppoli. Poi step a 66°C classico e qualcosa a 68°C per un filo di struttura.
La densità desiderata è stata OG 1057 e con un'attenuazione del 78% (di poco inferiore a quanto previsto) ho ottenuto una FG di 1013 con 5,9%alc. finale.


LUPPOLI
Qui la scelta è alquanto facile, perchè per dare toni esotici bisogna andare su varietà come Mosaic, Galaxy, Citra. Ho scelto le prime due.
Mi sono tenuto sulla luppolatua nei minuti finali, con un rapporto IBU/OG intorno all'unità e di luppolatura intorno ai 4 g/l, con IBU totali stimati sulle 58 unità
Discorso più intenso sul dry hopping, con le stesse varietà impiegate con un rapporto di quasi 6 g/l, in modalità che spiego tra poco.

ACQUA
Per dare morbidezza anche l'acqua va curata. In particolare, bisogna esaltare la componente luppolata e dare cremosità.
La chiave va cercata nel rapporto solfati/cloruri che deve essere a favore dei secondi, non facendo prevalere il graffio luppolato bensì la parte maltata più morbida.
In particolare ho creato questo profilo tenendo il rapporto solfati/cloruri a 0,8.

LIEVITO
Il lievito doveva avere particolari caratteristiche: esprimere leggeri fruttati, attenuare molto e non decantare velocemente: le ultime due caratteristiche sono spesso collegate, poichè la sospensione gli permette di lavorare di più.
La scelta va su qualche ceppo inglese "London Ale", ma come detto avevo modo di prendere il Vermont Ale con cui pare il tutto sia nato in birrifici del Vermont.


FERMENTAZIONE
Lo schema di fermentazione ho pensato dovesse prevedere tempi brevi, intorno ai 15 giorni tra cotta ed imbottigliamento.
Riguardo alle temperature, mi sono fermato sui 19-20°C per avere delicate note fruttate dal luppolo e per non disperder troppo l'aroma dei luppoli in dry hopping aggiunti in fermentazione primaria e non secondaria.


DRY HOPPING
Il dry hopping, appunto, è un'altra delle chiavi di quasto "pseudo-stile" (diciamolo, va', anche se è ancora tutto da comprendere).
A differenza del solito, qui si cerca il processo di biotrasformazione, facendo interagire luppoli e lieviti e sviluppando così aromi complessi. Questo avviene quando il luppolo viene a trovarsi aggiunto nel pieno della fase di "krausening" del lievito, e cioè pochissimi giorni dopo l'inoculo.
Ho fatto quindi dry hopping dopo 4 giorni appena, lasciandolo per circa altri 10.
Prelevando campioni per misurare la densità ho notato che, a differenza del mosto appena prodotto, la torbidità cominciava ad essere evidente: segno che questo è un fattore fondamentale di una Vermont IPA/New England IPA/ North East IPA, o per dirla prima e peggio "juicy IPA".


IMBOTTIGLIAMENTO
Ho evitato di fare un cold crashing spinto, tenendo quindi la birra solo 24h in frigo per far compattare solo i residui più grossi.
Qualcosa mi ha spinto qui ad osare: temendo che nei 10 giorni di dry hopping si fosse disperso quel bell'aroma dei primissimi giorni, ho inserito altro luppolo.
L'ho impiegato nella miscela di acqua e zucchero per il priming, durante il processo di raffreddamento di questa soluzione precedentemente bollita. Ho voluto estrarre, nell'ultimo momento disponibile, olii ed essenze che poi si sarebbero liberate subito dopo, durante la rifermentazione in bottiglia, conferendo ancora una volta quei prodotti della biotrasformazione di cui parlavo sopra.
Dando, quindi, ancora una spinta nella direzione dell'aroma.
Per quanto riguarda i volumi di CO2 disciolti, mi sono tenuto su 2,0.


TEMPI
Di sicuro è una birra che va bevuta fresca.
La prima l'ho stappata 5 giorni dopo l'imbottigliamento. Mi ha stupito l'aroma, un po' meno la pulizia in bocca ma questo lo imputo al pochissimo tempo trascorso.
Visivamente ho fatto centro e mi sta bene. Anche in bocca si avverte un certo spessore dato proprio da lievito e luppolo in pellet rimasto in sospensione.
L'amaro risulta garbato. La gasatura bassa e giusta. Nel confronto con la East Cream di Vento Forte posso affermare che non sfigura, anzi non presenta quel carattere officinale e da "sacchetto di luppolo" che della East Cream non ho gradito.
Ad un secondo assaggio a 10 giorni di distanza ho notato dei miglioramenti sul profilo del lievito, leggermente più rifinito e meno grezzo.


CONCLUSIONI
Devo dire che non mi è dispiaciuto calarmi in questo contesto di sperimentazione e di dedizione verso una tipologia di birra che non amo particolarmente e che quindi produco poco.
È stato un bel modo di mettersi alla prova e di cercare di afferrare il senso di queste produzioni americane.
Detto ciò, credo l'effetto succo di frutta sia il perno attorno al quale ruota questo alone di interesse, che secondo me nasce sia per mano di appassionati ormai avviati su una strada trash che alimenta il loro stesso gusto dell'orrido (perchè vedere una birra così torbida, per chi beve da anni birre craft, non è un passo avanti ma uno indietro), che per mano di novelli cultori del craft affascinati da aromi tropicali effettivamente irresistibili.
Il discorso di freschezza, ritmi produttivi ed alti consumi hanno fatto il resto, spingendo questa birra verso la rapidità e l'intensità.
Concetti senza i quali, molto probabilmente, non potremmo parlare di birre ammalianti: la flocculazione dei lieviti e dei residui di luppoli nelle settimane ed il decadimento degli aromi sarebbero impietosi.

Probabilmente questo esercizio di stile mi è stato utile per capire ancor meglio quanto la freschezza e la fragilità anche delle birre molto luppolate siano un fattore fondamentale.
Discorso che, per esempio, non permetterebbe a molti birrifici di buttarsi in scia di questo fenomeno a causa delle difficoltà nel vendere e nel far arrivare a destinazione il prodotto in buone condizioni e di farne fruire in tempi rapidi.
Ma questo è un altro discorso...

Cheers!

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